Chi era San Pellegrino

Il contesto storico

 

Dopo il periodo di prosperità dell’economia europea nei primi secoli del Secondo Millennio, tra il 1325 e il 1340 – complice anche un generale abbassamento delle temperature, passato alla storia come “piccola era glaciale” – le estati furono molto fresche e umide, con abbondanti piogge che mandarono in rovina molti raccolti e aumentarono l’estensione delle paludi esistenti. L’Europa fu colpita da una serie di carestie, che negli anni 1338 e 1343 interessarono maggiormente l’Europa meridionale.

Ad aggravare ulteriormente la situazione, nel 1337 tra Francia e Inghilterra scoppiò la cosiddetta “Guerra dei cent’anni”: i contadini, impauriti dalla guerra e non più in grado di sopravvivere con gli scarsi prodotti dei loro campi, si riversarono nelle città alla ricerca di sussistenza, andando a creare insediamenti sovrappopolati con condizioni igieniche assai precarie, cumuli di rifiuti a marcire per strada e assenza di fognature. È questo il quadro nel quale, nell’ottobre 1347 la grande peste (della quale parla anche Boccaccio nel Decamerone, comparsa nei porti del mar Mediterraneo, trovò le condizioni ideali per scatenare una pandemia.

All’interno dell’Ordine dei Servi di Maria, nato un secolo prima da Sette mercanti fiorentini e in quel periodo in espansione, si vive una situazione di grave divisione.  Il priore generale fra Pietro Sapiti da Todi (1314-1344) – che pure aveva inaugurato una feconda stagione di testi agiografici e sostenuto nuove fondazioni in Italia viene scomunicato nel 1334 da una parte dei frati, anche se rimane in carica fino alla morte, avvenuta nel 1344.
Nell’anno successivo (1345) moriva a Forlì, all’età di quasi ottant’anni e per una forte febbre, un anziano religioso dell’Ordine dei Servi di Maria: frate Pellegrino Laziosi.

Gran parte della vita di frate Pellegrino si era svolta nel clima di lotta tra guelfi e ghibellini che contraddistinse la Romagna: di fatto il “ghibellinismo” caratterizzò la città di Forlì, fino a alcuni periodi di grave tensione con i pontefici, i quali intervennero con interdetti e spedizioni militari.

Da parte sua Forlì teneva a precisare che «talora era stata ribelle a Santa Chiesa e interdetta, tuttavia mai aveva vacillato nella fede, ma che le ribellioni o erano state per mantenersi in libertà, o sotto li tiranni capi delle fazioni, aiutandoli questi a dilatare i confini del suo dominio».

 

La Legenda del beato frate


Pochi anni dopo la sua morte (probabilmente verso il 1350), veniva composta la sua vita o Legenda, che è il documento più autorevole per conoscere il santo frate forlivese. L’autore molto probabilmente è un Servo di Maria che lo conobbe personalmente o che almeno raccolse le informazioni da testimoni oculari: le notizie relative all’ultimo periodo, dai sessanta agli ottant’anni, appaiono così con forte fondamento storico.


Purtroppo il testo originale della antica Legenda non è ancora stato ritrovato. Conosciamo una «trascrizione della medesima in latino classico-umanistico, effettuata non oltre il 1483 da Nicolò Borghese (1432-1500), un senese eminente in campo politico e culturale che, oltre a san Pellegrino, si interessò a figure di santi e beati dell’Ordine dei Servi». Studi approfonditi accreditano il testo del Borghese di fedeltà alla Legenda originale: come afferma il massimo conoscitore del testo, fra Aristide M. Serra, «nella vita di san Pellegrino scritta nel 1483 da Nicolò Borghese siamo certi di raccogliere l’eco della testimonianza fluente e incisiva dei confratelli che conobbero il santo».


La vita di San Pellegrino


Pellegrino nacque attorno al 1265 a Forlì dalla famiglia Laziosi  e visse il clima religioso e politico della città, che già nel 1273 rifiutò di ricevere il podestà (guelfo) di Bologna e fu attaccata dai Bolognesi senza alcun risultato.


Il primo dato fondamentale della sua vita è l’incontro con frate Filippo da Firenze, dei Servi di Maria, inviato dal papa in occasione di uno degli interdetti: quest’incontro segna la sua conversione.
L’azione di Filippo da Firenze durante il tempo dell’interdetto della città (marzo 1282-settembre 1283) non è narrata dal Borghese ed è resa nota per la prima volta nel 1567 da un Servo di Maria fiorentino, Michele Poccianti, nel suo Chronicon. Ciononostante, attraverso molti indizi storicamente documentati, può essere riconosciuta come del tutto legittima l’ipotesi di «una attività di pace svolta quasi naturalmente da Filippo anche in una Forlì in rivolta e colpita da pene ecclesiastiche, seguita da qualche esito di conversione personificato dalla tradizione, seppure tardivamente, in Pellegrino Laziosi».


Qualche anno dopo l’avvenimento della conversione Pellegrino entra tra i frati a Siena; «appena divenuto frate – scrive Niccolò Borghese – un meraviglioso splendore inondò il suo capo, come per attestare che fedelmente avrebbe custodito castità, obbedienza e povertà secondo il proprio impegno» (LP 3) e «all’età di trent’anni era a tutti esempio di santa vita» (LP, 4).


Sono state fatte ipotesi, radicate nel contesto storico – definito dalla indeterminatezza in cui erano stati lasciati i Servi di Maria e altre nuove fondazioni dopo il decreto del concilio Lionese II del 1274 – per giustificare gli anni di attesa di Pellegrino tra la conversione e l’ingresso nell’Ordine.


…Pellegrino entra in un Ordine non ancora riconosciuto dalla Chiesa; questo pugno di frati (alcune decine, probabilmente non più di cento) si affida alla Madonna, ad esempio commissionando a grandissimi autori del tempo (Coppo di Marcovaldo, il più grade pittore fiorentino dell’epoca; Cimabue, maestro di Giotto; Duccio da Boninsegna) opere da collocare sull’altare maggiore delle loro chiese, quando non erano ancora sicuri di essere approvati dalla Chiesa (il riconoscimento avverrà solamente nel 1304). Pellegrino respira certamente questa fiducia nella Provvidenza.


Il fatto poi che Pellegrino viva il tempo del noviziato nel grande convento di Siena, dove incontra altri due frati senesi dei quali fu riconosciuta la vita santa (Gioacchino, entrato tra i Servi nel 1272 e morto nel 1305, e Francesco, entrato nel 1288 e morto nel 1326) aggiunge un elemento significativo nella vita del giovane forlivese.


L’unica comunità nella quale, dopo Siena, si svolse tutta sua vita fu quella di Santa Maria di Campostrino a Forlì. Questa comunità ebbe un significativo sviluppo: qui si svolsero due capitoli generali dell’Ordine (al tempo con cadenza annuale), l’8 maggio 1308 e il 1° maggio 1327. La comunità aveva anche una sala capitolare – elemento non sempre presente nei conventi dell’Ordine in questo periodo.


La sua è la vita di frate laico (o converso, come si diceva): non si fa mai menzione di episodi legati al sacerdozio, presenti invece in altre Legende coeve. Così la descrive la Legenda:

afflisse il suo corpo con veglie, digiuni e macerazioni; e, ciò che è appena credibile, per trent’anni non fu mai visto sedersi: sempre in piedi mentre mangiava; pregava genuflesso; vinto talora dalla stanchezza o dal sonno, per poco tempo s’appoggiava ad un sasso e, trovandosi in coro, ad una panca. Di notte non si coricava, ma la passava quasi del tutto nella lettura di inni e salmi. Meditava incessantemente la legge di Dio (LP 4).

Questa vita austera provocò a Pellegrino una piaga e uno straordinario gonfiore della gamba, ai quali «si aggiunse quel terribile morbo che chiamano cancro, dal quale dilagava un tale fetore intollerabile a coloro che lo assistevano» (LP 5).


Il miracolo


A questa malattia è legato il secondo episodio fondamentale della vita di Pellegrino: l’affidamento al Signore, medico delle anime e dei corpi, e della guarigione. Vale la pena leggere insieme il testo quattrocentesco:

Ridotto in così grande e molesta sofferenza, [Pellegrino] non compiangeva con lamenti la propria sorte; ma una simile malattia e sofferenza sosteneva con animo inalterabile, fiducioso nella parola dell’Apostolo che dice: nell’infermità la virtù si perfeziona (2Cor 12, 9a).

Il medico Paolo Salaghi, uno tra i suoi concittadini che piangevano una tanto grave malattia di Pellegrino, venne alla casa dell’infermo servo di Dio. Esaminata la gamba, indagò poi con più cura sulla forza del male; infine col consenso di tutti, venne a questa conclusione: che ormai non giovavano rimedi per recuperare la sanità e che la malattia si sarebbe ogni giorno più propagata fino a contaminare tutto il corpo, a meno che non si amputasse tempestivamente la gamba piagata. Questo, concordando tutti, fu deciso di eseguire, stimando essere conveniente sacrificare un membro piuttosto che lasciar perire tutto il corpo (LP 4-6).

 

prima del giorno destinato all’operazione – continua il testo della Legenda di Niccolò Borghese – la notte precedente, dopo aver lungamente riflettuto su quella decisione, Pellegrino stabilì di ricorrere a Gesù Cristo, suo Salvatore. Si levò, come poté, e da solo si trascinò faticosamente fino alla sala capitolare, dove si trovava un’immagine di Gesù Cristo crocifisso; a lui si rivolse implorante con queste parole:

“O Redentore degli uomini, per cancellare i nostri peccati hai voluto piegarti sotto il supplizio della croce e sotto una morte amarissima. Mentre eri sulla terra tra gli uomini, molti ne hai sanati sottoposti a tante malattie: mondasti il lebbroso, illuminasti il cieco quando disse: Gesù, figlio di David, abbi pietà di me” (Mt 8,2). Degnati ugualmente, o Signore mio Dio, di liberare questa mia gamba dal male altrimenti inguaribile; se non lo farai, sarà necessario tagliarla!”

Mentre diceva queste cose – tormentato con violenza dalla malattia – si addormentò, e nel sonno vide Gesù crocifisso discendere dalla croce e liberarlo da ogni languore alla gamba. Subito svegliatosi, s’accorse di avere la gamba sanata e così robusta come se mai fosse stata inferma. Dopo aver ringraziato Dio clementissimo per così straordinario dono, se ne tornò nella sua camera.

Alla mattina, fattosi chiaro, ecco che giunge il medico con attrezzi e pomate per eseguire l’amputazione della gamba. A lui dice Pellegrino: “Ritorna a casa, o tu che sei venuto per sanarmi! Quel medico che mi ha restituito perfetta sanità così mi parlò: Io sono colui che dono e tolgo agli uomini la buona e la cattiva salute, che mi prendo cura dell’anima e del corpo; io sono colui che ridonai la vista ai ciechi, mondai i lebbrosi, sanai i paralitici, resuscitai dagli inferi i morti; ecco, io sono colui che nessuna fatica, nessun obbrobrio – neppure un acerbissimo genere di morte – ricusai per la vostra salvezza. Colui che così mi ha parlato, lo stesso, o medico, mi ha perfettamente guarito”.

Udendo questi discorsi, il medico pensava che Pellegrino vaneggiasse per la violenza del male, e dice: “Mostra la gamba, perché io possa liberarti da questa contagiosa rovina di tutto il corpo”. Risponde Pellegrino: “Medico, cura te stesso! Di questa tua arte io più non bisogno; il Principe della medicina e l’Autore dell’umana salvezza ha allontanato con la sua potenza ogni mia infermità”. E subito mostrandogli la gamba dice: “Guarda, e sappi quale medico ho avuto!”.

Stupisce oltremodo il medico nell’osservare la gamba così guarita e robusta, senza tracce né del tumore enorme né del cancro vorace, e dice ai suoi assistenti: “Che grande miracolo!”.