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Mentre sono iniziate da parecchie settimane le corse agli acquisti, agli addobbi di vie o di case con alberi di Natale o Presepi, la Madre Chiesa ci dona un tempo di quattro settimane, tempo di grazia, per ricordarci ancora una volta che non è il nostro “fare” a rispondere e riempire pienamente l’attesa del nostro cuore.
Personalmente questo avvento mi trova più che mai cosciente nell’accorgermi che tutto quello che ho è insufficiente perché la mia vita sia felice pienamente.
In questi faticosi mesi di malattia, che stanno, forse, volgendosi ad una conclusione positiva, lo stare bene, dopo le cure, e l’operazione mi provocano una immensa gratitudine, ma nello stesso tempo una grande inquietudine.
Sento la sproporzione tra i doni ricevuti e il mio desiderio di corrispondere ad essi. Mi accorgo di quanto il benessere fisico non sia sufficiente a realizzare la pienezza totale desiderata.
Percepisco che non basta stare bene.
In questi mesi alcune persone mi hanno chiesto del dolore fisico e hanno pregato perché potesse essere più lieve.
Che meraviglia questa cordata di affetto che è arrivata dritta al cuore!
E proprio in virtù di questa gratitudine per tanta vicinanza sentita che ho sperimentato quanto il cuore sia bisognoso di un orizzonte più ampio, che va oltre il benessere fisico perché il destino di ciascuno ha i confini dell’eternità.
Recentemente mi è capitato di leggere questa frase di Maria Zambrano che descrive molto il mio stato d’animo permanente: “Nostalgia e speranza sembrano le ultime risorse del cuore umano”, in entrambe si percepisce lo stesso fatto: il fatto che la vita è sentita dal suo protagonista come incompleta e frammentaria […]; cioè, fa riferimento a qualcosa che manca, non si dà mai come un tutto compiuto”.
Così tutta la vita diventa desiderio, attesa, ma non di qualcosa, ma di qualcuno. “La mancanza è la forma con cui Dio si rende presente.” (J. Carron)
La celebrazione dell’Avvento intercetta questa potenzialità umana del nostro desiderio infinito e gli viene incontro con la buona notizia che quello che cerchiamo c’è, che come dice Simone Weil, “l’attesa è già partecipazione a ciò che si attende”.
Cristo è venuto nel mondo, è morto, è risorto ed asceso al cielo, ma ci ha promesso di rimanere con noi fino alla fine della storia. La promessa è già iniziata e la Chiesa la celebra nella sua liturgia, ma in essa educa i suoi figli a riconoscere che essa deve ancora compiersi.
Se io amo qualcuno so che c’è e quando lo vedo percepisco i benefici della sua presenza. Ma quando se ne va, incomincia la nostalgia, il sentimento della mancanza, come acutamente cantava Lucio Dalla nella canzone “Tu non mi basti mai”: “Ti incontro per strada e divento triste perché poi penso che te ne andrai”.
È solo l’attesa che permette a questo tempo di Avvento di non essere semplicemente un rito formale che non cambia nulla in noi.
Scriveva s. Agostino: “Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere l’insegnamento di tanta umiltà, anche in un maestro che ancora non parla. Tu una volta, nel paradiso terrestre, fosti così loquace da imporre il nome ad ogni essere vivente (Cf. Gn 2, 19-20); il tuo Creatore invece per te giaceva bambino in una mangiatoia e non chiamava per nome neanche sua madre. Tu in un vastissimo giardino ricco di alberi da frutta ti sei perduto perché non hai voluto obbedire; lui per obbedienza è venuto come creatura mortale in un angustissimo riparo, perché morendo ritrovasse te che eri morto. Tu che eri uomo hai voluto diventare Dio e così sei morto (Cf. Gn 3); lui che era Dio volle diventare uomo per ritrovare colui che era morto. La superbia umana ti ha tanto schiacciato che poteva sollevarti soltanto l’umiltà divina.”
Buon Avvento, con l’augurio che ciascuno di noi possa essere sollevato dall’umiltà di Dio.
don Stefano
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