Il tema dominante della liturgia della Parola in questa ultima domenica dell’Anno liturgico è quello del giudizio, della raccolta ad opera del Signore che è chiamato Pastore e Re.
Questa solennità ci aiuta anche a ricordare il senso della storia, del tempo. Nelle varie culture pagane, il tempo è un susseguirsi di istanti, senza un senso. Prevale la legge del caos, la disgregazione delle guerre. Il tempo sembra un lento sprofondare nella distruzione di tutto. Anche le varie teorie sulla reincarnazione posso essere viste come l’estremo tentativo dell’uomo di darsi un’altra possibilità per poter ricominciare.
Cosa dice invece la fede cristiana? Dice qualcosa di “tremendo”. Non possiamo separare ogni nostro atto dall’eternità. Ci sarà un giudizio su ciascuno di noi. Ma che parametri userà nostro Signore?
Giudicherà la nostra debolezza? Giudicherà la nostra vigliaccheria? Giudicherà prima di tutto in base agli errori commessi?
Il Vangelo sembra proprio escludere queste ipotesi. Se Dio dovesse giudicare in base alla nostra debolezza non ci sarebbe possibilità di salvezza.
Dio peserà, invece, la nostra vita in base al bene che avremo compiuto o meno. Notiamo la divisione tra pecore e capri. Che cosa li differenzia? Che le prime possono generare, i secondi no.
Dai frutti saremo giudicati e i frutti sono quelli della carità. Non dobbiamo, allora, prima di tutto. temere le nostre debolezze, ma le nostre mani vuote, perché sono il segno della mancanza di amore.
Potremmo fare un ‘obiezione: ma se il giudizio sarà in base al bene fatto o non fatto, cosa aggiunge la fede cristiana? In fondo il bene lo fanno tante associazioni laiche, tante Ong.
La fede non aggiunge un merito, ma una coscienza nuova al gesto della carità. Curare gli ammalati, andare a trovare i carcerati, vestire gli ignudi: il primo ammalato, il primo uomo che sceglie di rimanere solo nel suo male, il primo a svestirsi dell’abito della grazia sono io.
E’ Cristo che per primo mi ha visitato, curato e vestito. Questa è la coscienza del bene. Non risolvere i problemi del mondo, ma condividere i bisogni dei nostri fratelli e sorelle, come Cristo ha condiviso con me la mia povertà. La natura dell’amore non è risolvere, ma generare speranza e consapevolezza di non essere soli. Quante volte nell’ascoltare i poveri mi sento dire: “Grazie che mi ha ascoltato, sono tutti così di fretta e non hanno tempo”.
Preghiamo e chiediamo di convertirci all’impotenza e alla debolezza del nostro Re, che ha voluto essere debole, povero per non spaventarci con la sua onnipotente perfezione celeste. La carità è l’unico potere che lascia intatta la libertà di abbracciare e seguire l’amore ricevuto. Amen.