XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

Il Vangelo di questa domenica ci riporta ad una questione a cui noi occidentali siamo particolarmente legati: il rapporto tra la religione e lo Stato, tra Dio e la politica. In queste due realtà si trovano e si incrociano i bisogni più grandi dell’uomo, quello del senso della vita e quello del bisogno di interessarsi alla realtà, cercandola di renderla migliore.

La domanda posta a Gesù è evidentemente tendenziosa, innanzitutto nel modo di porgerla. Notiamo una serie di complimenti che immediatamente fanno destare il sospetto in Gesù, in quanto i nemici adulano, gli amici correggono. Infatti Cristo li chiamerà ipocriti, dal greco “ypocrites”, letteralmente questo termine significa “colui che sta sotto e spiega”. Nel teatro greco era la figura di un attore che imitava con la voce e con i gesti la parte di un altro. In questo contesto la parola vuole significare coloro che nascondono la loro critica, non vogliono mettere in luce il loro vero giudizio.

Gli interlocutori di Gesù si aspettavano due possibili risposte. Se Gesù avesse risposto positivamente si sarebbe messo contro il popolo di Israele che considerava i Romani, dei pagani invasori. Se la risposta fosse stata negativa avrebbero potuto accusarlo di essere un sobillatore del popolo e quindi un nemico di Roma.

Gesù spiazza tutti e restituisce alle due realtà, Dio e Cesare, quello che gli appartiene per natura. A Dio appartiene la persona e a Cesare le cose a servizio della persona. C’è un punto di contatto tra Cesare e Dio? Si è proprio la persona. Essa appartiene a Dio, l’uomo è di Dio, perchè tutto è di Dio. Il verbo usato “apòdote” significa restituire, rendere conto. Noi siamo sempre debitori in qualche modo perché  quello che siamo è un dono, viene da Dio ma viene anche da Cesare, la società i servizi che ci troviamo nel nostro ordinamento sociale, credo che nessuno di noi li abbia inventati.

La vita è quindi un restituire ciò che abbiamo avuto prima di tutto da Dio e poi dalla società.

Che novità porta la fede? Non è la politica che mi salva, non è la politica ciò che dà senso alle domande più profonde. E’ Dio il mio salvatore.

C’è un bellissimo racconto di Lagervist intitolato Barabba. E’ la storia di questo zelota che viene imprigionato perché vuole liberare la Palestina con la lotta armata. “Egli è il grande bandito, la figura dell’uomo libero che il potere costituito non riesce a bloccare. Ma il tempo è inesorabile. Barabba viene  preso e condannato alle miniere, incatenato col piede al piede di uno schiavo frigio, un uomo comune. Barabba sente che questo compagno, per cui nutre una ripugnanza infinita, improvvisamente suscita in lui un’attrattiva stranissima,  ha una forza che lui non conosce. Ha sì la placca dell’imperatore al collo, ma tuttavia è come se fosse liberissimo. Alla fine Barabba capisce perché: egli è schiavo solo di Cristo.” [1]

[1] Luigi Giussani, L’io, il potere e le opere, Marietti, Genova, 2000, p. 43.